25 Aprile: intervento di Paola Di Nicola, Giudice presso il Tribunale Penale di Roma

Alle donne Resistenti

Sono una giudice e oggi ho l’onore e l’emozione di essere in questa Piazza con voi, partigiani e partigiane di Siena che, con il vostro esempio, mi avete insegnato il gusto profumato della libertà.

Ma voglio utilizzare questa occasione, per me unica, per ringraziare, in particolare, le donne della Resistenza senza le quali non indosserei la toga e continuerebbe ad essermi vietata la funzione dell’interpretazione delle leggi, come è avvenuto fino al 1963.

Sono riconoscente al loro eroismo del giorno per giorno, testimoniato anche senza fucili: quello del mettere insieme il pranzo e la cena con un solo uovo, quello delle attese palpitanti dietro a una finestra, quello della consolazione dei non più consolabili. Sempre a rischio della vita.

Le donne stesse hanno minimizzato il loro ruolo decisivo nella lotta di liberazione perché hanno ritenuto di avere assecondato un dovere civile e morale, come hanno fatto le due vostre concittadine senesi, Vera Aldinucci e Bruna Talluri donne diverse accomunate dall’avere combattuto senza autoincensarsi.

La Costituzione è una parola femminile, la Democrazia e la Repubblica conquistate con il 25 aprile sono parole femminili, e tutto nasce da un’altra parola orgogliosamente femminile come “Resistenza”.
Non è una celebrazione quella di oggi, è una dichiarazione d’amore per l’Italia, è un percorso di ricerca di una memoria collettiva per comprendere il presente ascoltando le voci di ieri e di oggi che lo hanno costruito.

Capire la storia vuole dire leggere le storie di quotidiana resistenza al fascismo, quelle individuali, rimaste ignote, scivolate dentro una stanza d’ospedale o una classe delle elementari, dentro un ufficio postale o un panificio, dentro una famiglia oppressiva, storie in cui ognuno, a proprio modo, ha espresso un’irripetibile e preziosa opposizione fatta di speranza, di tenacia, di coraggio; il tessuto coloratissimo di infinite identità che ci ha portato oggi in questa piazza.
La Resistenza è una pagina esaltante per uomini e donne di questo Paese e di quelli che attraversano deserti e mari per raggiungerci; è una guida morale per le nuove generazioni figlie di provenienze geografiche diverse.

Uomini e donne hanno conquistato la libertà per tutti noi, hanno lottato per camminare insieme e in pace sulla strada della vita, per offrirci un domani di fratellanza tra i popoli, come disse Sandro Pertini.

Nel ripercorrere la vita delle partigiane, quelle poche raccontate e ancor meno quelle scritte, ho capito che la Resistenza, in Italia e in Europa, ha avuto due facce, una per uomini e donne e l’altra solo per le donne, quelle due facce che esistono dall’inizio della storia dell’umanità per ogni evento che segna la svolta di un percorso.

Per tutti noi la Resistenza, come scriveva il filosofo Norberto Bobbio, “è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo… è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli” (definizione tratta da un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963).

Per le donne la Resistenza è stata tutto questo, ma anche molto altro: una rivoluzione culturale e simbolica in cui il genere femminile è uscito dall’anonimato millenario, dalle gabbie dei ruoli e del controllo maschile – sociale e familiare-, e si è trasformato in soggetto della Storia, consapevole della propria intelligenza e capacità, del proprio valore, mosso dall’urgenza del cambiamento di fronte all’immensa catastrofe del nazifascismo, della guerra, dell’occupazione.
Da madri, mogli e figlie, relegate in ambiti domestici, le donne si sono trasformate, con la Resistenza, in quello che mai è stato loro consentito essere: cittadine, portatrici di diritti civili e politici, titolari di scelte autonome, rispettate per il loro impegno e la loro individualità.

Le donne della Resistenza, le donne che in qualsiasi modo, urlando o tacendo, si sono battute contro il nazi-fascismo e che mi piace chiamare resistenti, sono state protagoniste della più importante rivolta culturale dell’umanità, cioè l’acquisizione della soggettività femminile; ma le pagine di storia, troppo spesso, riconosceranno loro soltanto un ruolo ancillare, di supporto o, peggio, le costringeranno all’anonimato e alla smemoratezza collettiva.
Il merito storico delle donne resistenti, in Italia e in Europa, è stato quello di avere infranto stereotipi e pregiudizi millenari sul genere femminile, di avere rotto un ordine simbolico e culturale, svelando la falsità del tradizionale sistema di rappresentazione dei sessi.
Queste donne imbracciano le armi, uccidono, sabotano, scrivono e stampano i volantini antifascisti, pubblicano articoli politici, comandano, sanno fare la guerra, hanno i nervi saldi durante i rastrellamenti, gridano “viva la libertà” mentre vengono fucilate, insomma sottraggono alla società i falsi argomenti che le hanno da sempre descritte come naturalmente deboli, false, fragili, sottomesse, dedite alla cura.
Si tratta di un rapporto gerarchico replicatosi nella storia dell’umanità e che assume forme sempre diverse a seconda delle culture e delle epoche, ma resta immutato.

Le donne resistenti dimostrando di essere persone, e non più gloriose madri o mogli concepite e concepibili solo rispetto ad un uomo; dimostrando di avere abilità e capacità che non appartengono ad un genere, ma alla natura irripetibile di ciascun essere umano, infrangono strutture di pensiero assolute, quelle che costituiscono il sostrato della gerarchia millenaria che vede il genere maschile dominante e valoroso e il genere femminile subordinato e svalutato.
Celebre la frase di Teresa Mattei, partigiana toscana detta Chicchi, la più giovane Costituente, che contro ogni stereotipo disse: “L’unica volta che mi misi del rossetto fu per mettere una bomba“.
Con queste parole si rompe un ordine millenario e si dimostra come l’esclusione femminile sia frutto di una precisa e strategica scelta culturale che non ha nulla né di biologico, nè di naturale.
Prima della Resistenza le donne non erano soggetti di diritti: non potevano votare, erano escluse dall’insegnamento delle lettere e della filosofia, dai posti di responsabilità, dall’amministrazione pubblica, dalla magistratura e, a parità di lavoro con gli uomini, avevano salari molto inferiori, erano soggette alla potestà di un padre prima e di un marito poi.
Il modello concettuale arcaico le ha escluse prima di tutto dall’uso delle armi perché alle donne non è consentito far scorrere il sangue, in quanto madri devono donare la vita e non toglierla.
Ma il divieto delle armi non è che la rappresentazione più emblematica di altre più significative esclusioni: dalla parola pubblica, dalla rappresentanza, dal potere, dal linguaggio, dalla politica e dall’interpretazione della legge.
Le resistenti sono ammesse a lavorare e combattere solo per l’eccezionalità della situazione. La guerra, la dittatura, i rastrellamenti le fanno accedere a una condizione maschile, in quanto tale privilegiata e unica, non a una condizione consentita a qualsiasi essere umano per difendere e difendersi.
Ad Argo, nell’antica Grecia, le donne potevano combattere solo mettendosi una barba al mento questo nonostante il fatto che fossero state le donne, alla guida della poetessa Telesilla, nel 510 a.C. a respingere, armate, gli spartani invasori.
Il riconoscimento di una capacità femminile non esiste di per sé, va mediata e passa attraverso una trasformazione nel genere maschile – la barba in battaglia – perché solo a questo è riconosciuta gloria e valore. Con la Resistenza è la condizione di urgenza storica che rende le donne padrone della loro vita e delle loro scelte, ma, attenzione, solo provvisoriamente.
Il decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 dichiara partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata e ha preso parte ad almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio, chi è stato in carcere o al confino per almeno tre mesi.
Così vengono fatte fuori da medaglie e riconoscimenti gran parte delle donne, perché il decreto premia solo la guerra combattuta secondo criteri militari, i criteri degli uomini.
Ciononostante, dal sito dell’ANPI leggo
2.500 cadute o fucilate;
35.000 riconosciute partigiane combattenti;
20.000 patriote;
512 commissarie di guerra;
2.750 deportate;
2.653 arrestate e torturate;
19 insignite di Medaglia d’Oro al valor militare, numerose di Medaglia d’Argento;
70.000 le donne che aderirono e lottarono nei Gruppi di Difesa della Donna (GDD), un’organizzazione il cui obiettivo era promuovere la Resistenza, ma anche pensare al domani cioè “all’accesso delle donne a qualsiasi impiego… a qualsiasi organizzazione politica e sindacale in condizioni di parità”.
Nel nostro immaginario il partigiano è un uomo, il paradigma del guerriero che imbraccia un fucile e vive con sacrificio sulle montagne; mentre la partigiana è una donna in bicicletta, con una gonna svolazzante, che porta gli ordini, di uomini ad altri uomini, per combattere il fascismo. Già in questa rappresentazione simbolica, fotografata sui libri di scuola, si legge la minimizzazione di una resistenza senza armi: la Resistenza delle donne.
Alla fine della lotta al nazi-fascismo, armata e non armata, la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti. Per questi gli studiosi e le studiose dicono che le statistiche sulla partecipazione femminile alla Resistenza sono poco attendibili.
Queste donne hanno combattuto in 1000 modi: proteggendo i soldati, curando i feriti, nascondendo gli ebrei, raccogliendo soldi e cibo, organizzando il Soccorso Rosso per le famiglie in difficoltà dei militanti, distribuendo volantini, falsificando i documenti, perché la loro coscienza e la loro dignità di persone finalmente libere le portava a combattere contro ogni umiliazione, senza desiderare che qualcuno un giorno potesse premiarle.
Le donne resistenti con la loro scelta di trasgredire un ordine atavico, non avendo accettato il ruolo di sudditanza loro assegnato, sono state ridimensionate, la loro presenza è stata minimizzata.
Mentre i partigiani, come è loro dovuto, sono degli eroi riconosciuti, le resistenti, le partigiane, non sempre sono state considerate delle eroine. Hanno subìto persino l’isolamento dalle altre donne, perché ritenute prive di morale per avere dormito e vissuto promiscuamente con tanti uomini.
Queste donne rivoluzionarie, e non solo resistenti, per la società e per la cultura fascista avevano il doppio stigma perché combattevano contro il potere costituito e violavano l’ordine per eccellenza, quello degli obblighi femminili tradizionali di buona moglie e buona madre e, quindi, avrebbero potuto violare qualsiasi ordine.
Le donne resistenti hanno sofferto anche la lacerazione del senso di colpa rispetto agli affetti, il sentimento di estraneità ed estraneazione rispetto ad un mondo che prometteva libertà, dignità e giustizia anche per le donne e che, invece, dopo la guerra le aveva ricacciate dentro le gabbie stereotipate dei ruoli sociali e familiari.

La loro Resistenza, spesso priva di compiacimenti e medaglie, orfana dell’unica iconografia unanimemente riconosciuta del fucile e della montagna, troppo spesso è stata svalutata.
Eppure avevano corso rischi ogni giorno, come i loro compagni di strada, ma per loro se ne aggiungeva uno ulteriore, quello che resta indelebilmente inciso nel corpo e nell’animo di una donna e per questo il più taciuto: lo stupro.
Teresa Mattei venne violentata da cinque nazisti delle SS. Riuscì a rivelarlo solo nel 1997, a 50 anni da quell’orrore. Ancora una volta la vergogna delle donne di parlarne, eppure era stata una resistenza al nemico che avrebbe dovuto essere onorata. Era avvenuta senza armi, questo forse la rendeva meno eroica?

Gli storici hanno scritto che le donne hanno contribuito alla Resistenza, non che l’hanno fatta; che hanno avuto compiti ausiliari, non che ne sono state protagoniste.
Attenzione al peso grave delle parole e al ridimensionamento che esprimono perché rischia di restituirci una Resistenza dimidiata e impoverita.

Le resistenti avevano scelto la Resistenza per uscire da umiliazione e sudditanza sia come cittadine italiane ed europee, sia come donne, ma una volta finita la guerra il più grande tradimento che avevano trovato era stata la disillusione di non essere pienamente riconosciute, talvolta persino dimenticate.

A questa disillusione appartiene la discussione all’Assemblea costituente in cui tutti i partiti, da destra a sinistra, eccetto le donne Costituenti e altre rare eccezioni, avevano sostenuto, con diversi gradi di misoginia, l’inadeguatezza delle donne ad indossare la toga e ad imbracciare le armi: escluse dalla giurisdizione e dall’esercito. E questo in spregio all’art. 3 della Costituzione. Si dovranno aspettare decenni per ripristinare il principio di uguaglianza, scritto con il sangue di uomini e donne, di partigiani e partigiane.

Questa terra ha pianto le stragi dei fascisti a Montemaggio, Monticchiello, Rigosecco e Scalvaia, come ha pianto i morti uccisi dei nazisti a Molli e Tegoia, ma questa terra ci ha donato la sua partigiana Chicchi che, incinta senza essere sposata, contro stereotipi e pregiudizi, ha consegnato il 27 dicembre 1947 il testo della Costituzione nelle mani del Presidente della Repubblica Enrico de Nicola in quanto più giovane tra i Costituenti.
Grazie alle donne e agli uomini di Siena e della Toscana per averci regalato questo Paese libero e democratico, con la ricchezza dei suoi nomi femminili e maschili provenienti da tutte le parti del mondo.
Siena 25 aprile 2019

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